C’è un modo molto efficace per sapere quanto resisterà una persona prima di scrollare un post: contarne i secondi. Uno, due, tre… e addio. E se sei ancora qui a leggere, beh, complimenti: noi abbiamo perso la nostra scommessa e tu sei ufficialmente una specie in via d’estinzione.
Ma è davvero tutta colpa di TikTok? Del nostro cervello? Dell’algoritmo?
Partiamo da un dato: no, la soglia di attenzione dell’essere umano non è scesa sotto quella di un pesce rosso. È una leggenda metropolitana, ma come tutte le leggende ha un fondo di verità. Perché non è che abbiamo smesso di essere attenti: abbiamo smesso di doverlo essere.
Oggi siamo circondati da contenuti progettati per catturarci in pochi istanti. Ogni secondo in cui non ci stiamo annoiando è un secondo in cui qualcuno ha vinto. Vinto la nostra attenzione, il nostro tempo, la nostra permanenza sulla piattaforma. Ed è qui che arriva il punto: l’attenzione è diventata la valuta più preziosa dell’ecosistema digitale. E chi crea contenuti – sì, anche noi che ci occupiamo di comunicazione – deve decidere da che parte stare.
Facciamo i pescatori o le esche?
I contenuti short, gli stimoli a pioggia, i montaggi nevrotici, i video “a doppio schermo” – quelli con I Griffin sopra e un gioco ipnotico sotto – non nascono per dire qualcosa, ma per impedirti di smettere di guardare. Funzionano? Certo, ma cosa succede se a furia di usarli, dimentichiamo perché volevamo l’attenzione? L’attenzione non va solo catturata. Va rispettata. E il rispetto passa anche per il coraggio di chiedere attenzione vera; di creare contenuti che chiedano uno sforzo; che non ti spieghino tutto nei primi 5 secondi, ma che ti portino, piano piano, da qualche parte.
In un mondo che combatte per conquistare lo sguardo per 3 secondi, tu potresti essere quello che prova a conquistare la mente per 3 minuti. O magari anche di più. Perché anche se siamo circondati da esche… c’è ancora chi vuole pescare.